Pink Floyd si congedano con un tributo all’arte del tastierista scomparso nel 2008, ma anche al proprio talento di architetti sonori. Album sostanzialmente strumentale, “The endless river” allude alla libertà che la band aveva negli anni precedenti “The dark side of the moon”. La libertà di allontanarsi dalla forma canzone, la libertà di sbagliare. Con una differenza fondamentale: quelli erano Pink Floyd audaci e progressisti, questi sono appagati e conservatori.
“The endless river” è anzitutto un’appendice a “The division bell”. Per i pochi che ancora non conoscono la storia, durante le session dell’album del 1994 il gruppo allora composto da David Gilmour , Richard Wright e Nick Mason carezzò l’idea di pubblicare un doppio: da una parte le canzoni, dall’altra gli strumentali, una specie di “Ummagumma”. Il progetto fu abbandonato e per quasi vent’anni jam e musiche abbozzate sono rimaste negli archivi di Gilmour. Lì è finito anche “The big spliff”, il collage assemblato da Andy Jackson a partire da quei frammenti per dimostrarne le potenzialità. Ma “The endless river” non è “The big spliff”. Le venti ore di registrazioni d’archivio sono state affidate ai co-produttori Phil Manzanera , Youth e allo stesso Jackson al fine di ricavare e montare i momenti migliori. Privo del talento progettuale di un Roger Waters e forse distratto dalla registrazione del suo album solista, Gilmour ha affidato a loro il compito di porre le basi dell’album. Quando ha ripreso possesso del progetto le tracce assemblate dai produttori sono state in parte risuonate e rimaneggiate, integrate da nuove performance, mischiate e riordinate fino a comporre le quattro sezioni dell’album. Alle session hanno partecipato Jon Carin e Damon Iddins alle tastiere, Guy Pratt e Bob Ezrin al basso, il sassofonista Gilad Atzmon, tre coriste e il quartetto femminile d’archi elettrici Escala, lanciato in patria dalla partecipazione a “Britain’s got talent”.
È il disco ambient dei Pink Floyd, è stato detto.
E invece “The endless river” nega uno dei principi della musica ambient che è progettata per fare da sfondo alle attività quotidiane. La musica come un mobile, un quadro, tappezzeria. “The endless river” non funziona così. Richiede la vostra attenzione per essere apprezzato perché comunica attraverso piccole variazioni, l’alternanza dei colori timbrici, l’idea della musica strumentale come narrazione astratta. Per capirlo ti ci devi immergere. Frustra l’ascoltatore da YouTube, quello che vuole un ritornello entro trenta secondi, e che sia clamoroso. L’album offre una visione parziale dei Pink Floyd, mostrando per lo più il loro talento nel lanciarsi in digressioni strumentali d’atmosfera. E offre ottime prove di Gilmour, del suo timbro, del suo tocco. In questo senso, il disco sta perfettamente all’interno alla tradizione della band. Fin troppo, e questo è il suo limite principale. Riferimenti ai lavori compresi fra “The dark side of the moon” e “The wall”, e ovviamente a “The division bell”, fanno sembrare l’album un’eco del passato. È assente ogni temerarietà. Fortunatamente, sono assenti anche i suoni databili risalenti alle session del 1993 e rintracciabili in “The division bell”. Curiosamente, compare un frammento suonato da Wright all’organo della Royal Albert Hall nel 1969: non stona affatto.
Quel che ascoltiamo non è il dialogo creativo fra i musicisti del gruppo.
Somiglia piuttosto alla visione collettiva – di Gilmour, Mason, Manzanera, Youth e Jackson – dell’essenza dei Pink Floyd. È un collage a più mani costruito partendo da materiale preesistente e seguendo un’idea di quel che i Pink Floyd sono o dovrebbero essere. Gilmour e Mason non hanno alterato il carattere estemporaneo delle incisioni, hanno salvaguardato la loro precarietà negandosi un’opportunità. Avrebbero potuto trasformare alcuni strumentali in canzoni e soddisfare un pubblico ancora più vasto. Hanno preferito restare fedeli all’idea originaria producendo uno di quei dischi “minori” che compaiono nella discografia dei Pink Floyd pre “Dark side”. Il problema è che essendosi legati a un “copione” – il montaggio delle vecchie incisioni – Gilmour e Mason non hanno perfettamente risolto il problema della frammentarietà del materiale. Se “It’s what we do”, “Anisina” e “Allons-y” offrono una narrativa musicale compiuta, molti altri brani di un paio di minuti di durata sembrano code o preludi di canzoni che non arrivano mai e specie all’inizio della terza sezione il gruppo semina scampoli musicali facilmente emendabili. Un tempo ogni nota dei Pink Floyd sembrava scolpita, pensata, necessaria. S’ascoltavano i loro strumentali col fiato sospeso, per capire dove sarebbero andati a finire. Oggi la loro musica è splendidamente prevedibile.